L’agevolazione prima casa vale anche se ho la nuda proprietà su altro immobile nello stesso Comune?

La domanda sottoposta da una cliente ha portato alla luce una ricerca che avevo già fatto anni addietro e che vale la pena rispolverare econdividere con chi segue la pagine o il gruppo dello studio de’FRANCESCO & PARTNERS.

Il quesito è questo: può un soggetto già titolare di una nuda proprietà nel medesimo comune usufruire delle agevolazioni per l’acquisto della prima casa dove andare a vivere?

L’Agenzia delle Entrate, con dei chiarimenti forniti nella circolare Ministeriale 1/1994 e nella circolare 38/E/2005, ha chiarito che l’agevolazione è compatibile con la nuda proprietà sulla base del presupposto che il nudo proprietario non ha il possesso dell’immobile che, invece, fa capo all’usufruttuario.

In pratica, il proprietario è privato della detenzione e, conseguentemente, della concreta possibilità di utilizzare tale immobile come abitazione principale e può quindi usufruire delle agevolazioni prima casa su un altro immobile, anche se situato nello stesso territorio comunale.

Tuttavia, viene precisato che il beneficio spetta solo nel caso in cui la nuda proprietà sia stata acquistata senza fruire in precedenza dell’agevolazione prima casa e salva l’ipotesi in cui il nudo proprietario acquisti l’immobile dall’usufruttuario al fine di riunire usufrutto e nuda proprietà o viceversa (l’usufruttuario acquisti la nuda proprietà).

Al punto 6), paragrafo 4, della circolare Ministeriale del 2 marzo 1994, n. 1, contenente la disciplina ai fini delle imposte di registro, ipotecaria , catastale ed INVIM, si legge: “Qualora oggetto del contratto sia l’acquisto di un fabbricato o porzione di fabbricato da parte del titolare del diritto di nuda proprietà su altro immobile, lo stesso contratto rientra nel regime di favore nel caso in cui ricorrano le restanti condizioni previste dalla legge. Il nudo proprietario, infatti, non ha il possesso dell’immobile che fa capo all’usufruttuario”.

“Al contrario, l’acquisto di un fabbricato o porzione di fabbricato da parte dell’usufruttuario di altro bene immobile idoneo ad abitazione e’ escluso dalle agevolazioni tributarie, avendo l’usufruttuario il possesso dell’immobile”.

L’acquisto della nuda proprietà o dell’usufrutto, da parte del soggetto già titolare, rispettivamente, del diritto di usufrutto o di quello di nuda proprietà’ sul bene medesimo, rientra nelle disposizioni agevolative in quanto il suddetto contratto consente l’acquisizione della piena proprietà.

In altre parole, la titolarità della sola nuda proprietà su altro immobile è idonea ad impedire il godimento dell’agevolazione sull’acquisto di qualsiasi immobile sito sul territorio nazionale solo se acquistata in precedenza sfruttando l’agevolazione “prima casa”.

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de’FRANCESCO & PARTNERS

Avv. Giandomenico de’FRANCESCO

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Notifica negli USA di atti giudiziari in materia civile e commerciale.


Le possibili modalità di notifica a soggetti (siano essi cittadini italiani o stranieri) che
abbiano la residenza negli USA sono le seguenti:


A) notificazione a norma degli artt. 30 e 75 d.p.r. 200 del 1967, cd. legge consolare
(applicabile solo se il destinatario, pur risiedendo in USA è cittadino italiano).

B) notificazione nelle forme previste dalle convenzioni internazionali (obbligatoria se il
destinatario è cittadino statunitense):
1) ex art. 5 lett. A) della Convenzione dell’Aja del 15.11.1965;
2) ex art. 10 lett. A) della medesima Convenzione.

A) Procedimento consolare
La notifica deve essere richiesta, senza spese, a cura dell’Ufficiale giudiziario, ai sensi degli articoli 30 e 75 del DPR 5.1.1967, n. 200, mediante invio di due copie dell’atto (con traduzione giurata in lingua inglese, se il destinatario è cittadino straniero) direttamente alle Rappresentanze diplomatico-consolari territorialmente competenti.
Negli USA operano diversi Consolati Generali d’Italia ognuno con la propria giurisdizione (Boston, Philadelphia, Chicago, Detroit, Houston, Los Angeles, Miami, New York, Newark, San Francisco) .
Ad adempimenti conclusi la Rappresentanza italiana all’estero restituisce a sua volta direttamente all’Autorità giudiziaria richiedente la seconda copia dell’atto con la relata di avvenuta notifica o con la documentazione attestante la mancata consegna.


B1) Procedimento ex art. 5 lett. A) della Convenzione dell’Aja del 1965.
Tra Stati Uniti d’America ed Italia non esistono accordi bilaterali in materia di notificazione. Si applica pertanto la Convenzione dell’Aja del 15.11.1965, sottoscritta e ratificata da entrambi i paesi. In base a tale convenzione ciascuno stato aderente indica una propria autorità centrale. Chiunque intenda chiedere la notifica di un atto giudiziario ad una persona residente all’estero è tenuto (tramite ovviamente gli ufficiali giudiziari del proprio stato) a rivolgersi
all’autorità centrale dello stato straniero. Sarà quest’ultima a curare la notificazione dell’atto o secondo le forme prescritte dalla legislazione dello Stato richiesto per la notifica o la comunicazione degli atti redatti in questo Paese e che sono destinati alle persone che si trovano sul suo territorio o secondo la forma particolare chiesta dal richiedente, purché tale forma non sia incompatibile con la legge dello Stato richiesto.
L’istanza di notificazione, redatta secondo l’apposito modello allegato alla Convenzione dell’Aja, deve essere accompagnata dall’atto giudiziario o dalla copia, il tutto in duplice esemplare.
Essa va inoltrata, a cura dell’ufficiale giudiziario, all’autorità centrale designata dagli Stati uniti d’America per l’espletamento delle procedure di cui alla cennata convenzione.

Va subito precisato che ilministero della giustizia U.S.A. (U.S. Department of Justice, indicato dagli USA come autorità centrale), ha esternalizzato il servizio di notifica degli atti in materia civile e commerciale provenienti dai paesi esteri, affidandolo ad una società privata: la Process Forwarding International, di Seattle (http://www.hagueservice.net/).
A questa società privata l’ufficiale giudiziario dovrà, quindi, spedire l’istanza di notifica al seguente indirizzo: 633 Yesler Way, Seattle, WA 98104 (USA).
Oltre al duplice esemplare dell’atto da notificare ed alla traduzione giurata in lingua inglese (ma solo se il destinatario è cittadino straniero) all’istanza dovrà essere allegata la ricevuta dell’avvenuto pagamento della tariffa prevista che attualmente è di 95 $ per atto da notificare.
Il pagamento potrà essere effettuato tramite carta di credito, trasferimento bancario, vaglia postale internazionale e “governmen-issued cheks” pagabili a Process Forwarding International.
Le richieste di notifica dovranno essere corredate da una traduzione e redatte in duplice copia. Una copia verrà ritrasmessa al mittente con un certificato attestante l’avvenuta notifica. Nella richiesta è inoltre necessario includere nome, cognome e indirizzo completo del destinatario della notifica.

B2) Procedimento ex art. 10 lett. A) della Convenzione dell’Aja del 1965.
Tale norma consente la notificazione diretta degli atti giudiziari tramite la posta raccomandata ordinaria, a patto che lo stato di destinazione non abbia sollevato formale opposizione a tale procedura.
Nessuna opposizione o riserva è stata esplicitata dagli USA che, pertanto, ammettono questo tipo di notificazione.
L’ufficiale giudiziario si limiterà a spedire direttamente al destinatario il plico contenente la copia dell’atto.
La spedizione deve avvenire nelle forme previste per gli invii raccomandati internazionali dalla Convenzione Postale Universale di Rio De Janeiro del 26 ottobre 1979 (artt. 52-55)., a cui è stata data attuazione in Italia con d.p.r. 11 febbraio 1981, n. 358. L’avviso di ricevimento deve essere compilato sul modello CN 07 di colore rosso chiaro,
che può essere reperito presso gli uffici postali e che va fissato in modo solido al plico.
Sulla busta contenente l’atto da notificare (possibilmente sotto l’indirizzo del destinatario) dovrà apporsi la dicitura “Delivery to the Addressee Only” (consegnare esclusivamente al destinatario).

Le sanzioni per violazione delle restrizioni previste nel D.L. 25 marzo 2020 n. 19, cd. “Decreto Lockdown”

Come abbiamo potuto apprendere in questi giorni, con il Decreto Legge n. 19 in vigore dal 25 marzo u.s., il Consiglio dei Ministri ha introdotto nuove misure per contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19.

La decisione di prolungare le misure restrittive, già emanate con precedente decreto legge, deriva senz’altro dalla necessità di contenere la diffusione del virus sul territorio italiano, anche alla luce dei dati che sembrano iniziare a dare riscontro positivo ai sacrifici imposti nelle ultime settimane.

Innanzitutto, Il decreto elenca una serie di restrizioni e di regole, accorpando le disposizioni precedentemente adottate con i diversi Dpcm, ovvero dallo stop agli spostamenti alla possibile chiusura di strade e parchi.

Tra queste misure, vengono indicate:

  • la limitazione della circolazione delle persone, il divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione per i soggetti in quarantena perché contagiati e la quarantena precauzionale per le persone che hanno avuto contatti stretti con soggetti contagiati.

  • la limitazione, la sospensione o il divieto di svolgere attività ludiche, ricreative, sportive e motorie all’aperto o in luoghi aperti al pubblico.

A garanzia del rispetto delle misure di distanziamento sociale, il Decreto n. 19/2020 inasprisce il sistema sanzionatorio, disciplinato dall’art. 4.

  1. Cosa prevede l’art. 4 in caso di inosservanza delle disposizioni?

  • Il mancato rispetto delle misure di contenimento è punito, salvo che il fatto costituisca reato, con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da € 400 ad € 3.000 e NON si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 c.p. o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità. Se il mancato rispetto delle misure restrittive avviene mediante l’utilizzo di un veicolo le sanzioni sono aumentate fino a un terzo.

Ciò significa che, a partire dal 25 marzo 2020, chiunque venga fermato dalle Forze dell’Ordine fuori della propria abitazione per futili motivi ovvero senza un valido motivo che non sia quello dei comprovati motivi di lavoro, di assoluta urgenza per trasferimento in Comune diverso, situazioni di necessità o motivi di salute rischia NON più una denuncia penale per violazione dell’articolo 650 c.p. – “Inosservanza di provvedimento dell’Autorità” – come previsto nel precedente DPCM del 22 marzo 2020 – bensì una sanzione amministrativa da € 400 fino ad € 3.000, che potrà essere aumentata fino ad un terzo, ovvero fino ad € 4000, se il fatto è commesso alla guida di un veicolo o in caso di recidiva.

Detto ciò, necessariamente dobbiamo precisare che l’entità della sanzione amministrativa sarà stabilita dal Prefetto e nel frattempo si avrà la facoltà di presentare scritti difensivi entro 30 giorni dall’inizio del procedimento.

  1. In caso di sanzione amministrativa quali sono le conseguenze?

Come sopra esposto, la competenza in materia spetta al Prefetto del luogo ove è stata commessa la violazione; se questi ritiene che non vi siano i presupposti per contestare la violazione, procederà ad archiviare il procedimento; nel caso, invece, che il Prefetto ritenga che sussistano i presupposti della contestazione, provvederà ad emettere nei confronti del trasgressore un’ordinanza di ingiunzione, che verrà notificata al destinatario nella quale specificherà l’importo che andrà pagato nel termine di 60 giorni.

Contro tale provvedimento è ammesso ricorso alternativamente al Prefetto o al Giudice di Pace, come avviene per le normali contravvenzioni al codice della strada, entro 30 giorni dall’avvenuta notifica.

In caso di mancato pagamento della sanzione amministrativa nei termini previsti e di mancata impugnazione del provvedimento nei termini di legge, il Prefetto provvederà ad iscrivere a ruolo per il recupero coattivo della somma, ovviamente maggiorata di interessi e spese di riscossione.

Si rileva, altresì, che se la violazione alle suddette norme è compiuta con un veicolo, la sanzione amministrativa sarà aumentata fino ad un terzo, ovvero fino ad € 4.000, ma in tal caso responsabile in solido per il pagamento della sanzione sarà anche il proprietario del veicolo se è persona diversa dal conducente, a meno che non provi che la circolazione sia avvenuta contro la sua volontà, ad esempio esponendo che il veicolo gli è stato rubato.

Il nuovo Decreto, però, NON ha introdotto sanzioni accessorie, anche se erano stati previsti inizialmente nell’originario testo di legge, come il sequestro e la confisca dei veicoli e dei motocicli per mezzo dei quali erano state commesse le violazioni alle misure restrittive.

  1. Cosa accade per i pubblici esercizi, attività produttive o commerciali?

Nei casi di mancato rispetto delle misure previste per pubblici esercizi o attività produttive o commerciali, si applica la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni. La sanzione si applica in particolare per le attività previste dall’articolo 1, comma 2, lettere i), m), p), u), v), z) e aa).

Nel caso di reiterata violazione della medesima disposizione, la sanzione amministrativa è raddoppiata e quella accessoria è applicata nella misura massima.

  1. Cosa accade per coloro che sono già stati denunciati per la violazione dell’art. 650 c.p.?

I dati emanati dalle Forze Pubbliche, hanno confermato che i soggetti denunciati per essere usciti di casa nonostante i divieti per violazione dell’articolo 650 c.p. per “Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità” sono stati circa 110.000 cittadini.

Ciò premesso, si rileva che nel decreto le disposizioni ivi contenute sostituiscono le sanzioni penali con sanzioni amministrative, le quali si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto.

In sostanza, il nuovo decreto ha “depenalizzato di fatto” tutte le violazioni commesse ai sensi dell’art. 650 c.p. che fino a ieri costituivano reato, essendo stato previsto che le sanzioni amministrative introdotte vanno a sostituire quelle contravvenzionali previste dall’art. 650 c.p. che prevede, si rammenta, l’applicazione dell’ammenda di € 206 o l’arresto fino a 3 mesi.

Dette sanzioni amministrative, pertanto, opereranno retroattivamente, facendo venire meno gli effetti delle denunce e le conseguenze penali – quindi l’annotazione nel casellario giudiziale in caso di condanna – ma resteranno esclusivamente le sanzioni amministrative. Questo, sempre che il procedimento penale scaturito a seguito della denuncia per il reato di cui al 650 c.p. non sia stato definito con sentenza o con decreto penale divenuti irrevocabili, ma in tali casi le sanzioni sono applicate nella misura minima.

La emanazione sequenziale e ravvicinata nel tempo di tutti questi DPCM e Decreti Legge, ha creato confusione e non è ben chiaro – all’interprete giurista, come al comune cittadino – quale sanzione possa essere applicata, specie nel caso in cui una persona disattenda le prescrizioni imposte dall’autorità in materia di libertà di movimento ed esca dalla propria abitazione per motivi che non siano di salute, necessità o di lavoro.

Cerchiamo allora di fare chiarezza circa la successione delle norme nel tempo in materia penale, specie alla luce del Decreto-legge 25 Marzo 2020.

Occorre, comunque, brevemente esplicitare che gli interpreti si sono orientati nel ritenere sussumibile nell’ambito di un reato contravvenzionale – e cioè l’articolo 650 Codice Penale, rubricato “Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità” – la condotta di colui che non osserva il provvedimento emanato dall’Autorità, prescindendo dal fatto che tale provvedimento abbia forza di legge – come hanno i decreti legge – o di mero atto amministrativo – quali sono i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri. In tal senso, tale reato è fatto proprio espressamente dall’articolo 3, comma 4, del Decreto-Legge 23 febbraio 2020, n. 6, e dall’articolo 4, comma 2, del DPCM 8 marzo 2020.

Tale contravvenzione, però, all’occhio di molti giuristi – e di molte Procure della Repubblica – che ben conoscono la realtà pratica del processo penale, è parsa inadeguata rispetto al contesto, per una pluralità di ragioni. Perciò, alcuni uffici giudiziari hanno proposto interpretazioni alternative: è il caso della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, che ha proposto l’articolo 260 del Testo unico delle leggi sanitarie (TULS), che punisce chi non osserva un ordine “legalmente dato per impedire l’invasione o la diffusione di una malattia infettiva” ma, anche tale interpretazione presenta delle problematiche, giacché l’articolo 260 TULS è norma risalente al legislatore del ventennio, e in molti la tacciano di dubbia costituzionalità.

Oltre a ciò, il legislatore ha, fino all’entrata in vigore del Decreto-legge 25 marzo 2020 n. 19, come si è visto, previsto espressamente l’applicazione dell’articolo 650 Codice Penale, e non di altri reati. Da ultimo, tale reato sembra più facilmente applicabile alle fattispecie di inottemperanza del periodo di quarantena legalmente imposto, come ha previsto infine il Decreto-legge 25 marzo 2020, prevedendo che si applichi per le violazioni del “divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus”.

A queste problematiche giuridiche, sollecitato da piu´ parti,, l’Esecutivo ha risposto con il citato Decreto-legge 25 Marzo 2020, con la previsione secondo cui il mancato rispetto delle misure di contenimento, limitanti la libertà di movimento, sia punibile con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 400 a 3.000 euro, salvo che il fatto non costituisca reato. Appare chiaro, quindi, che il legislatore abbia approntato una depenalizzazione del reato, con contestuale introduzione di un illecito amministrativo, operando perciò una successione mediata di leggi penali.

A questo punto, l’interrogativo principale che ci si pone è se tale vicenda successoria possa essere inquadrata nell’ambito dell’articolo 2 Codice Penale, comma II, che sancisce il principio di retroattività della norma penale abolitrice dell’incriminazione, applicando la norma abolitrice più favorevole, oppure nelle fattispecie di cui all’articolo 2, comma V, Codice Penale e articolo 14 Disp. Preliminari al Codice Civile (c.d. “Preleggi”), che disciplinano l’applicazione delle leggi eccezionali e temporanee.

Dapprima, si potrebbe sostenere che la legislazione creata per contrastare la diffusione del coronavirus sia composta di norme penali eccezionali e temporanee.

L’articolo 2, comma 5, Codice Penale, statuisce che “se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti”, introducendo così un regime derogatorio per le leggi eccezionali e temporanee, che saranno sostenute dal principio del tempus regit actum.

Secondo l’articolo 14 delle Preleggi, rubricato Applicazione delle leggi penali ed eccezionali”, «le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati». Ma cosa si intende per legge eccezionale e/o temporanea? Il carattere di temporaneità è chiarito dalla relazione ai “Lavori preparatori del Codice penale”, secondo cui si definiscono leggi temporanee, ex articolo 2, comma V, «quelle che hanno vigore entro un limite di tempo da esse stesse determinato» (cfr. vol. V, parte I, p. 24), mentre l’eccezionalità è dovuta ad un ambito di operatività temporale in cui insiste uno stato di fatto caratterizzato da accadimenti fuori dal comune, come potrebbe ben essere un’epidemia.

Ma ci sono vari motivi per ritenere che la normativa in tema di coronavirus non abbia questi requisiti. Prima dii tutto, il successivo comma VI dell’articolo 2 Codice Penale prevede che anche alle norme penali introdotte con decreto legge si applichi la disciplina di cui all’articolo 2, comma II, Codice Penale. In secondo luogo, è evidente come il Decreto-legge 23 febbraio 2020 non abbia introdotto la fattispecie di cui all’articolo 650 Codice Penale, ma ne abbia solo richiamato l’applicazione. L’articolo 650 Codice Penale era previgente rispetto all’epidemia, e presumibilmente esisterà successivamente ad essa. Addirittura, avrebbe potuto essere applicato anche senza essere stato richiamato espressamente, in quanto norma penale “in bianco”. È chiaro, quindi, che il Decreto-legge citato non abbia introdotto alcuna norma penale eccezionale e temporanea. Pertanto, la depenalizzazione dell’inottemperanza al provvedimento dell’Autorità in materia di contenimento della libertà di movimento dovuto all’emergenza epidemiologica è un fenomeno da inquadrarsi nell’ambito della c.d. successione mediata della legge nel tempo. Con questa dicitura, si intende quel fenomeno per cui a mutare non sono le disposizioni incriminatrici, bensì disposizioni esterne ad esse e, al contempo, da queste richiamate a qualificare un elemento normativo della fattispecie.

Infatti, l’opinione maggioritaria è positiva circa l’applicazione dell’articolo 2 Codice Penale, comma II, per il caso in cui la norma successiva abolitrice preveda anche l’introduzione di un illecito amministrativo (cfr. Trib. Milano, sent. 1° marzo 2001), ma ci si è chiesto se il Giudice, in tale ipotesi, nel pronunciare sentenza di assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, debba applicare la neo-introdotta sanzione amministrativa.

La risposta a tale quesito è data dalle Sezioni Unite della Cassazione che, con sentenza 28 giugno 2012, n. 25457, hanno affermato che l’Autorità giudiziaria che assolve l’imputato per sopravvenuta depenalizzazione del fatto non deve trasmettere gli atti all’autorità amministrativa per l’irrogazione della relativa sanzione, in assenza di disposizioni transitorie ad hoc nella legge di depenalizzazione. Difatti, vi sarebbe di ostacolo il principio di irretroattività dell’illecito amministrativo, come sancito dall’articolo 1 Legge 689/1981 (c.d. legge di depenalizzazione), e perciò non si potrebbe far retroagire l’operatività di una nuova sanzione amministrativa.

Rapportando tutto ciò alle norme emergenziali per contrastare il coronavirus, è evidente che il legislatore ha fatto tesoro di questa sentenza, poiché il Decreto-legge 25 marzo 2020 prevede, nel proprio testo, la necessaria disciplina transitoria laddove all’articolo 4, comma VIII, del Decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, statuisce che: «Le disposizioni del presente articolo che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ma in tali casi le sanzioni amministrative sono applicate nella misura minima ridotta alla metà. Si applicano in quanto compatibili le disposizioni degli articoli 101 e 102 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507».

Le conseguenze sono facilmente prevedibili:

Il Giudice penale – perlopiù il Giudice per le indagini preliminari – alternativamente procederà alla archiviazione del procedimento o applicherà l’articolo 129 Codice Procedura Penale e pronuncerà sentenza di assoluzione perché rileverà che il fatto non è più previsto dalla legge come reato. Nel dichiarare l’archiviazione o l’assoluzione, potrà trasmettere gli atti all’autorità amministrativa competente, cioè al Prefetto;

Appare di tutta evidenza che la leggerezza con cui l´esecutivo richiamava l´applicazione del 650 cp per le violazione degli obblighi e le limitazioni derivanti dalle norme emergenziali relative al covid-19 ha provocato l´attivazione di circa circa 100.000 procedimenti penali che cadranno nel nulla, tantissimo lavoro inutile da parte delle Procure e della polizia giudiziaria.

Situazione completamente diversa, invece, per i soggetti positivi al Covid-19 che violando la quarantena sono stati fermati dalle Forze dell’Ordine fuori dell’abitazione: in tal caso, restano gli effetti e le conseguenze penali della relativa denuncia per violazione dell’articolo 452, comma 1 e 2, c.p. punito con la pena della reclusione da 1 a 5 anni.

de´FRANCESCO & PARTNERS

Avv. Luciano BRUNOTTI                Avv. Giandomenico de´FRANCESCO

LA FATTURAZIONE ELETTRONICA

Ebbene si, disattendendo le speranze di molti circa un rinvio dell’ultimo momento, il 01 gennaio 2019 è diventata obbligatoria la fatturazione elettronica.

La genesi di questa modalità di fatturazione è da individuare, a livello europeo, nell’adozione e recepimento della Direttiva 2014/55/UE del 16 aprile 2014 relativa alla fatturazione elettronica negli appalti pubblici che mirava al raggiungimento di due primari obiettivi: generare risparmi e dematerializzare i processi delle imprese. In quel caso, però, comportava l’obbligo di emettere solo fatture elettroniche per i soggetti che si interfacciavano con la PA.

L’obbligo di fatturazione elettronica veniva esteso al B2B, ossia “Business to Business”, dalla manovra del 2017, legge 205/2017 e l’Agenzia delle Entrate pubblicava le regole tecniche con la circolare del 30 aprile 2018.

Dall’obbligo di emissione della fattura in formato elettronico sono esonerati solo i soggetti di minori dimensioni che si avvalgono del cosiddetto “regime di vantaggio” previsto dall’art. 27 comma 3 del Decreto Legge n. 98/11 o del “regime forfettario” previsto dalla Legge n. 190/14, gli operatori sanitari e pochi altri.

La volontà del governo di estendere l’obbligatorietà della fatturazione elettronica tra privati e B2b a partire dal 2019 veniva motivata dalla necessità di introdurre norme per il contrasto all’evasione fiscale.

Era, in effetti, questo uno dei motivi fondamentali per i quali l’Italia chiedeva alla Commissione Europea di poter introdurre nell’ordinamento nazionale l’obbligo di emettere fatture elettroniche anche nel settore privato, come già fatto con successo verso la Pubblica Amministrazione, in parziale deroga a quando contenuto nella Direttiva 2006/112/CE in materia di IVA.

Personalmente ritengo che la semplice adozione dell’obbligo di fatturazione elettronica tra privati possa fare ben poco contro l’evasione fiscale (posto che chi veniva pagato in contanti e non emetteva fattura continuerà a farlo anche con questo sistema) potrà, semmai, costituire un deterrente solo per il fenomeno della falsa fatturazione.

Ma cosa è, nel concreto, la fatturazione elettronica?

La fatturazione elettronica è un sistema digitale di emissione, trasmissione e conservazione delle fatture che permette di abbandonare per sempre il supporto cartaceo e tutti i relativi costi di stampa spedizione, conservazione e di invio delle fatture.

Gli attori coinvolti: Privati e Pubbliche Amministrazioni. Il sistema di interscambio previsto è il formato XML. Il formato XML è il formato standard scelto per la fattura (In informatica XML (sigla di eXtensible Markup Language) è un metalinguaggio per la definizione di linguaggi di markup, ovvero un linguaggio marcatore basato su un meccanismo sintattico che consente di definire e controllare il significato degli elementi contenuti in un documento o in un testo.

Il Sistema di Interscambio – SDI non è altro che un software di smistamento – si potrebbe anche definire “postino” poichè non fa altro che ricevere i file fatture di tutti gli utenti ed inviarli ai destinatari. Fornitori e clienti (siano essi privati e/o Pubbliche Amministrazioni) sono soggetti invariati rispetto alle precedenti modalità di emissione delle fatture e conosciuti da tutti.

Si redige il file fattura in formato xml, questo deve essere firmato digitalmente oppure “sigillato” (il sigillo è apponibile alle sole fatture tra privati) e trasmesso al destinatario tramite il sistema di interscambio.

Il destinatario viene individuato a mezzo di un codice univoco (se si tratta di PA) oppure a mezzo di codice univoco o PEC se si tratta di privati. I soggetti passivi che non si dotano di un codice o di una PEC sono comunque raggiunti dalla fattura che verrà recapitata nella loro area riservata dell’Agenzia delle Entrate. Tutto questo procedimento è gestito da software, gratuiti o a pagamento, di cui parleremo di seguito.

Molti si lamentano che questa nuova modalità di emissione e ricezione della fatturazione elettronica costituisca un ulteriore balzello e/o un costo posto a carico delle aziende e dei professionisti. Sul punto vale la pena di spendere due parole. Da una parte deve evidenziarsi come l’Italia sia uno dei pochi paesi che ha esteso l’obbligo di fatturazione elettronica, che la direttiva europea aveva chiesto divenisse obbligatoria solo con i rapporto con la PA, anche nei rapporti tra le aziende ed i professionisti ed addirittura tra questi ed i privati. Da questo punto di vista perciò non può non rimproverarsi ai nostri governanti, che sempre parlano di semplificazione e trasparenza, di aver, se non complicato, sicuramente aggravato gli incombenti e le attività di gestione delle aziende in genere.

Se, infatti, dar seguito agli obblighi di fatturazione elettronica può non rappresentare un ulteriore costo a carico delle attività produttive, sicuramente costituisce un notevole aggravio in termini di tempi necessari alla redazione e compilazione della fattura.

Per quanto riguarda i costi, infatti, deve segnalarsi che l’Agenzia delle Entrate ha attivato un sistema di redazione, controllo, trasmissione e conservazione delle fatture elettroniche, sia attive che passive. Il sistema è totalmente gratuito ed accessibile sul portale della stessa AGE sotto la voce “Fatture e Corrispettivi” rinvenibile nell’area riservata di ciascun utente. Per accedere all’area riservata occorre fornirsi delle credenziali di Fisconline (https://telematici.agenziaentrate.gov.it/Abilitazione/Fisconline.jsp) oppure di Entratel (https://telematici.agenziaentrate.gov.it/Main/index.jsp)

Per quanto riguarda l’aggravio di tempo deve sottolinearsi che l’elaborazione delle fatture, dal software dell’agenzia, presuppone la conoscenza, da parte degli operatori, di alcune normative e concetti fiscali. Il sistema non procede ad effettuare calcoli automaticamente. Occorre poi avere una certa dimestichezza con i sistemi informativi e la firma digitale. La stessa conservazione gratuita non risulta automatizzata con la conseguenza che è necessario scaricare sempre tutti i file (sia quello della fattura sia quelli delle ricevuta di invio e di esito) per poi caricarle nell’apposita sezione dedicata alla conservazione digitale delle fatture.

L’alternativa è dotarsi di appositi software gestionali (questi purtroppo a pagamento) che facilitano tutti i processi.

Concludendo, si può costatare che la fatturazione elettronica applicata genericamente a tutti gli operatori economici, con le eccezioni sopra indicate, non può costituire quel rimedio contro l’evasione paventato dal legislatore a giustificazione di tale scelta operativa e l’esclusione dei regimi di vantaggio e forfettario dall’obbligo non fa che confermare l’inutilità ai fini dichiarati.

Avv. Giandomenico de’FRANCESCO

LA MEDIAZIONE E LA NEGOZIAZIONE ASSISTITA. OBBLIGATORIETÀ E PROCEDURA

Tra gli strumenti per la definizione stragiudiziale delle controversie particolare rilievo assumono gli istituti della mediazione e della negoziazione assistita

Tra gli strumenti per la definizione stragiudiziale delle controversie particolare rilievo assumono gli istituti della mediazione e della negoziazione assistita.

La mediazione – originariamente introdotta dal decreto legislativo 28/2010, dichiarato incostituzionale per eccesso di delega, è stata reintrodotta dalla legge 9 agosto 2013, n. 98 che ha convertito con modifiche il D.L. 69/2013, con il quale sono stati “corretti” i profili d’incostituzionalità della normativa originaria – è in vigore dal 20 settembre 2013.

Più recente risulta l’istituto della negoziazione assistita – introdotto con il decreto legge 132/2014, convertito con modificazioni dalla legge 10 novembre 2014, n. 162 – entrata in vigore (in linea teorica) il 13 settembre 2014, ma concretamente applicabile dal 9 febbraio 2015, visto che l’art. 3 co. 8 D.L. 132/2014 stabilisce come l’improcedibilità dell’azione giudiziaria (negoziazione obbligatoria), introdotta con tale articolo, acquista efficacia solo decorsi 90 giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione, con l’eccezione della negoziazione obbligatoria in materia di contratti di trasporto, in vigore già dal 1° gennaio 2015.

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LA MEDIAZIONE

E’ quella “attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, anche con formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa” (art. 1 lett. a), D.Lgs. 28/2010).

La mediazione può essere obbligatoria, allorquando è condizione di procedibilità per l’eventuale giudizio civile, facoltativa ovvero disposta dal giudice, considerato che lo stesso, anche in sede di appello, può imporre l’esperimento del tentativo di mediazione che, pertanto, anche in questo caso diverrà condizione di procedibilità (obbligatoria su valutazione del giudice).

Le materie in cui la mediazione risulta obbligatoria sono quelle in tema di “condominio, diritti reali, divisioni, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazioni, comodato, affitto di aziende, risarcimento di danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione a mezzo stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari”.

La mediazione non è più condizione di procedibilità della domanda giudiziale e, pertanto, non risulta obbligatoria: a) nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione; b) nei procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento del rito di cui all’articolo 667 del codice di procedura civile; c) nei procedimenti di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, di cui all’articolo 696-bis del codice di procedura civile; d) nei procedimenti possessori, fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all’articolo 703, terzo comma, del codice di procedura civile; e) nei procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata; f) nei procedimenti in camera di consiglio; g) nell’azione civile esercitata nel processo penale (art. 4 n. 4) D.Lgs. 28/2010).

Anche nei casi di mediazione obbligatoria, tuttavia, è sempre possibile richiedere al giudice i provvedimenti che, secondo la legge, risultano urgenti e indilazionabili.

L’obbligo della mediazione rimarrà in vigore per quattro anni, al termine dei quali il Ministero della Giustizia dovrà esaminarne i risultati e le problematiche emerse.

Nelle materie in cui esiste l’obbligatorietà della mediazione le parti dovranno necessariamente farsi assistere da un avvocato.

La mediazione viene introdotta con una istanza da presentarsi all’organismo di mediazione prescelto, presente nel luogo del giudice territorialmente compete per il giudizio. In altri termini, si configura una competenza territoriale analoga a quella del giudice competente a conoscere della causa.

Gli organismi di mediazione debbono essere iscritti in un apposito registro del Ministero della Giustizia e sono ordinati secondo il numero di iscrizione. L’organismo di mediazione può essere operativo in più luoghi contemporaneamente ma le domande di mediazione vanno presentate alla sede legale dell’organismo, mentre gli incontri di mediazione possono svolgersi anche presso le sedi operative.

Il mediatore deve possedere i seguenti requisiti: un titolo di studio non inferiore al diploma di laurea universitaria triennale, o in alternativa, essere iscritto ad un collegio o ordine professionale; non essere incorso in interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici; non aver riportato sanzioni disciplinari diverse dall’avvertimento; non essere stato sottoposto a misure di sicurezza o di prevenzione; non aver riportato condanne definitive per delitti non colposi o pena detentiva non sospesa.

Chi vuole intraprendere questa professione deve acquisire una specifica formazione, seguendo uno speciale corso per mediatore civile (corso di 50 ore e test di valutazione), con aggiornamento almeno biennale.

Gli avvocati, in virtù delle specifiche competente in materia, sono mediatori di diritto. Vale a dire che per far parte di un organismo di mediazione non avranno necessità di frequentare lo specifico corso ma dovranno, tuttavia, partecipare agli aggiornamenti con cadenza biennale.

Una volta intrapreso il procedimento di mediazione, a seguito di apposita istanza (che deve contenere i dati dell’organismo di mediazione, le parti, l’oggetto e le ragioni della pretesa), viene fissato un incontro preliminare tra le parti nel corso del quale il mediatore designato informa le stesse sulla funzione e le modalità di svolgimento della procedura. In questo primo incontro il mediatore ha vieppiù il compito di verificare l’effettiva possibilità di un accordo e, qualora emerga l’impossibilità dello stesso, questa diverrà condizione sufficiente per la procedibilità dell’azione giudiziaria. In questo caso nessun compenso è dovuto all’organismo di mediazione (art. 17 n. 5-ter D.Lgs. 28/2010).

Questa sorta di gratuità, introdotta dall’art. 84, co. 1, lett. p), n. 2), D.L. 21 giugno 2013, n. 69, risulta oltre modo capziosa: se da un lato, infatti, il legislatore vessa gli utenti della giustizia con continui aumenti dei costi (contributo unificato, marche da bollo, ecc.), dall’altro scarica sugli organismi di mediazione i costi relativi alla procedura di conciliazione – nella stragrande maggioranza dei casi obbligatoria – nell’ipotesi in cui risulti impossibile raggiungere un accordo.

Il procedimento di mediazione ha una durata massima stabilita dalla legge di tre mesi, trascorsi i quali il processo può iniziare o proseguire.

All’atto della presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell’organismo designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti non oltre trenta giorni dal deposito della domanda. La domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante. Come detto, al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato. Nelle controversie che richiedono specifiche competenze tecniche, l’organismo può nominare uno o più mediatori ausiliari. Il procedimento si svolge senza particolari formalità presso la sede dell’organismo di mediazione o nel luogo indicato dal regolamento di procedura dell’organismo e il mediatore si adopera affinché le parti raggiungano un accordo amichevole di definizione della controversia (art. 8. D.Lgs. 28/2010).

Chiunque presta la propria opera o il proprio servizio nell’organismo è tenuto all’obbligo di riservatezza, anche nei confronti delle stesse parti, rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite nel corso delle sessioni separate (art. 9 D.Lgs. 28/2010).

Le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto anche parziale, salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni. Sul contenuto delle stesse dichiarazioni e informazioni non è ammessa prova testimoniale e non può essere deferito giuramento decisorio. Il mediatore non può essere tenuto a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel procedimento di mediazione, né davanti all’autorità giudiziaria né davanti ad altra autorità (art. 10 D.Lgs. 28/2010).

Se la mediazione riesce, l’accordo viene verbalizzato e sottoscritto dal mediatore e dagli avvocati delle parti. Il verbale di conciliazione così sottoscritto avrà efficacia di titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione per gli obblighi di fare e non fare, nonché per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale, e ciò senza nessun ulteriore incombenza, considerato che i difensori delle parti ne certificano la conformità alle norme imperative ed all’ordine pubblico.

In tutti gli altri casi (sono essenzialmente quelli relativi ad accordi raggiunti senza l’assistenza degli avvocati – mediazione facoltativa), l’efficacia di titolo esecutivo dell’accordo potrà essere ottenuta attraverso l’omologa del Presidente del tribunale competente.

Gli atti del procedimento di mediazione sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni altra spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura, lo stesso verbale di accordo è esente dall’imposta di registro sino alla concorrenza del valore di 50.000 euro.

Da ricordare, infine, che quando la mediazione è condizione di procedibilità ex lege della domanda giudiziale (obbligatoria) ovvero quando la stessa è disposta dal giudice, le parti meno abbienti possono accedere gratuitamente al procedimento, nel caso sussistano le condizioni per beneficiare del gratuito patrocinio nel giudizio in tribunale.

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LA NEGOZIAZIONE ASSISTITA

La convenzione di negoziazione assistita da uno o più avvocati è un accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati …” (art. 1 D.L. 132/2014).

Detta procedura, pertanto, è finalizzata alla composizione bonaria della lite, con la sottoscrizione delle parti – assistite dai rispettivi difensori – di un accordo detto convenzione di negoziazione.

La negoziazione assistita può essere volontaria, siccome scelta liberamente dalle parti – ma non può avere ad oggetto diritti indisponibili né vertere in materia di lavoro – ovvero obbligatoria (ex lege), essendo il procedimento di negoziazione condizione di procedibilità della domanda (rilevabile d’ufficio o eccepita dal convenuto non oltre la prima udienza).

Il legislatore ha poi previsto specifiche disposizioni in materia di negoziazione assistita facoltativa in materia di famiglia.

L’obbligatorietà vige in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti, per chi intenda proporre in giudizio una domanda di pagamento a qualsiasi titolo (ad eccezione, come detto sopra, dei crediti in materia di lavoro) di somme non eccedenti cinquantamila euro (art. 3 co. I D.L. 132/2014) ed ora, con la legge di stabilità 2015, anche in materia di contratti di trasporto o di sub-trasporto (art. 249 L. 190/2014).

La negoziazione sotto pena di improcedibilità non si applica: a) nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione; b) nei procedimenti di consulenza tecnica preventiva (art. 696-bis cpc); c) nei procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata; d) nei procedimenti in camera di consiglio; e) nell’azione civile esercitata nel processo penale (art. 3 co. III D.L. 132/2014).

Nella procedura di negoziazione le parti devono farsi assistere necessariamente da un avvocato, il quale avrà il dovere deontologico di informare il cliente della possibilità di ricorrere alla convenzione di negoziazione assistita, con il divieto per lo stesso di impugnare l’accordo al quale abbia partecipato.

Il procedimento viene avviato con l’invito alla controparte a stipulare una convenzione di negoziazione assistita. L’invito, redatto per iscritto a pena di nullità, sottoscritto dalla parte personalmente con firma autenticata dal difensore, deve specificare l’oggetto della controversia con l’avvertimento che la mancata risposta all’invito entro trenta giorni dalla ricezione o il suo rifiuto può essere valutato dal giudice ai fini delle spese del giudizio, della responsabilità aggravata (art. 96 cpc) e dell’esecuzione provvisoria (art. 642 cpc).

La controparte, nei trenta giorni dalla ricezione, può rifiutare l’invito, non aderire o aderire allo stesso. Se l’invito è rifiutato o non accettato nel termine sopra detto, la domanda giudiziale deve essere proposta nel medesimo termine (30 giorni) decorrente dal rifiuto, dalla mancata accettazione o dalla dichiarazione di mancato accordo certificata dagli avvocati.

La comunicazione dell’invito, al pari della sottoscrizione della convenzione, sospendono il decorso del termine di prescrizione.

La convenzione di negoziazione assistita, oltre all’oggetto della controversia, deve indicare il termine concordato dalle parti per l’espletamento della procedura, che non deve essere inferiore a un mese né superiore a tre mesi, prorogabile per ulteriori trenta giorni su accordo tra le parti.

L’accordo che definisce la controversia, sottoscritto dalle parti e dai rispettivi avvocati, costituisce titolo esecutivo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. I difensori, certificano l’autenticità delle firme e la conformità della convenzione alle norme imperative e all’ordine pubblico.

Gli avvocati e le parti hanno l’obbligo di comportarsi con lealtà e di tenere riservate le informazioni ricevute.  Le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso del procedimento non possono essere utilizzate nel giudizio avente in tutto o in parte il medesimo oggetto. I difensori delle parti e coloro che partecipano al procedimento non possono essere tenuti a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite (art. 9 D.L. 132/2014).

I difensori sono altresì tenuti a trasmetterne copia al Consiglio dell’ordine del luogo ove l’accordo è stato raggiunto o, in alternativa, al Consiglio dell’ordine presso cui è iscritto uno degli avvocati.

Il compenso per l’opera professionale svolta dai rispettivi avvocati rimane a carico delle parti. Nel solo caso di negoziazione assistita obbligatoria, all’avvocato non è dovuto il compenso dalla parte che si trova nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (art. 3 co. V Dl 132/2014), prescrizione quest’ultima alquanto stravagante, considerato che, molto probabilmente, l’avvocato non accetterà un incarico non remunerato.

Avv. Giandomenico de’FRANCESCO

SVILUPPO E STRATEGIA D’IMPRESA

La società GSviluppo e StrategiaERCAP Consulting, società di servizi e consulenza professionale legata allo studio de’FRANCESCO & PARTNERS ed allo studio TRIBUTARIO E COMMERCIALE GASBARRI, opera nel settore dello sviluppo e della strategia di businss da tantissimi anni, i soci sono profesionisti che sono stati attivi promotori della internazionalizzazione di moltissime aziende sia in paesi comunitari che extrra UE ed in particolare per questi ultimi nei paesi ex CIS quali la Repubblica di Belarus (meglio conosciuta coma Bielorussia) e la Russia.

Ma cosa significa STRATEGIA DI BUSINESS: vuol dire governare i fattori di produzione (uomini, risorse e rapporti con elementi esterni) per assicurare la sopravvivenza e lo sviluppo a lungo termine dell’azienda. In pratica le decisioni più importanti per un impresa sono quelle strategiche e cioè quelle riguardanti gli obiettivi e l’impiego delle risorse aziendali nel lungo periodo.

Le strategie notoriamente vanno verso tre direzioni: CORPORATE, COMPETITIVE e FUNZIONALI. Le prime riguardano lo sviluppo del campo di azione dell’impresa attraverso la scelta dei mercati e delle attività in cui operare, le seconde indicano le modalità con cui una impresa decide di competere in un area strategica di affari per ottenere un vantaggio competitivo, le terze indicano gli obiettivi e le modalità organizzative di ogni singola funzione.

Questo fa la nostra società, mette a disposizione le competenze ed il Know How acquisite negli anni dai soci affiancando l’azienda, l’imprenditore nelle scelte strategiche, ricercando nel mercato le opportunità sia commerciali sia finanziarie per perseguire gli obiettivi aziendali. Lavoro questo che, spesso e volentieri, l’imprenditore non riesce a fare o al quale non riesce a dedicare la dovuta attenzione per i troppi impegni che la gestione ordinaria dell’attività richiede.

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A.U. Giandomenico de’FRANCESCO

LE RETI D’IMPRESA

 

Reti impresa

La Rete di Impresa è un accordo, formalizzato in un “Contratto di Rete“, basato sulla collaborazione, lo scambio e l’aggregazione tra imprese e rappresenta un modello di business alternativo rispetto a quello individualistico e frammentato del nostro tessuto economico.
Lo scopo principale delle Reti di Impresa è quello di raggiungere degli obiettivi comuni di incremento della capacità innovativa e per questo della competitività aziendale.

La legge prevede ampia autonomia contrattuale per adeguare gli obblighi giuridici agli scopi e agli obiettivi che le imprese retiste vogliono ottenere.

Sulla base di un programma comune, le imprese retiste possono:

  • Collaborare nell’ambito delle rispettive imprese
  • Scambiare know-how o prestazioni industriali, commerciali, tecnologiche
  • Esercitare in comune attività di impresa

Le Reti possono avere un fondo patrimoniale comune e un organo comune e, in tal caso, chiedendo la registrazione presso il Registro Imprese, ottenere il riconoscimento della soggettività giuridica.

 PERCHE’ FARE UNA RETE D’IMPRESA?

  • Per incrementare la produttività e la competitività.
  • Per condividere conoscenze e competenze.
  • Per sviluppare maggiore potenzialità innovativa.
  • Per conquistare nuovi mercati e internazionalizzarsi.
  • Per certificare la qualità del proprio processo produttivo.
  • Per razionalizzare i costi di gestione.
La Rete di impresa può essere considerata un valido strumento per permettere alle micro e alle PMI di raggiungere una massa critica per competere a livello globale, salvaguardando la propria individualità e creando così valore per l’azienda stessa, ma anche sviluppo per il territorio in cui opera.

Reti d’Impresa e Appalti pubblici

Anche le Reti d’Impresa possono partecipare alle procedure di gara per l’aggiudicazione di contratti pubblici ai sensi degli articoli 34 e 37 del D.lgs 12 aprile 2006, n. 163.L’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici ha emanato la Determinazione n. 3 del 23 aprile 2013 che chiarisce come le regole valevoli per RTI e Consorzi possano applicarsi alle specificità proprie del contratto di rete.

La Rete e le agevolazioni fiscali – Circolare del 18 giugno 2013 N. 20/E

Pubblicati i chiarimenti dell’Agenzia delle entrate sulle Reti soggetto e le Reti contratto e sull’agevolazione fiscale concessa alle imprese in rete.

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DL N. 83/2015 E PROCEDIMENTI DI ESECUZIONE

Tutte le novità del decreto legge n. 83/2015 in vigore dal 27 giugno
Il nuovo decreto legge c.d. anti credit crunch interviene con diverse misure in materia fallimentare, civile e processuale civile. In allegato il testo

Contenuto del precetto, nuovi limiti al pignoramento di stipendi e pensioni, ma anche misure per le vendite e istituzione dell’elenco dei custodi giudiziari, sono solo alcune delle novità che il Governo ha deciso di apportare alla procedura espropriativa, con il fine ultimo di accorciare i tempi per il recupero dei crediti e snellire le procedure, scegliendo, tuttavia, ancora una volta lo strumento della decretazione d’urgenza (anziché imboccare la via di una riforma organica della materia) e la tecnica degli “innesti” che rischia di mandare in confusione gli stessi operatori del diritto.

Vediamo, intanto, tutte le novità:

Esecuzione forzata beni indisponibili o alienati a titolo gratuito

Una delle novità del d.l. n. 83/2015 (già operativa per le procedure iniziate successivamente all’entrata in vigore del decreto) è l’introduzione del nuovo art. 2929-bis al codice civile, il quale ammette l’esecuzione forzata per i beni immobili o mobili registrati del debitore anche se sottoposti a vincolo di indisponibilità (o di alienazioni a titolo gratuito), senza la preventiva sentenza dichiarativa di inefficacia del vincolo o del trasferimento, laddove il vincolo sia sorto successivamente al sorgere del credito e se il pignoramento è stato trascritto entro un anno dalla data in cui l’atto stesso è stato trascritto.

La possibilità è concessa anche ai creditori anteriori se, entro un anno dalla trascrizione dell’atto pregiudizievole, intervengono nell’esecuzione promossa da altri.

Il “nuovo” precetto

La riforma arricchisce anche il contenuto dell’atto di precetto prevedendo, attraverso la modifica del comma 2 dell’art. 480 c.p.c., l’obbligo del creditore di avvertire, nel medesimo atto, il debitore della possibilità di chiedere aiuto ad un organismo di composizione della crisi o ad un professionista nominato dal giudice, per “porre rimedio alla situazione di sovraindebitamento” concludendo con il creditore stesso un accordo di composizione della crisi o proponendo un piano del consumatore.

La disposizione diventerà operativa a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto (leggi: “Il nuovo atto di precetto dopo il decreto ‘anti credit crunch’”).

Portale delle vendite pubbliche

Le aste riguardanti beni immobili o mobili registrati si effettueranno online sul portale unico delle vendite pubbliche e la pubblicità sarà obbligatoria, a pena di estinzione della procedura (leggi: “Aste giudiziarie: d’ora in poi solo online, sul portale delle vendite pubbliche”).

Questa è un’altra delle rilevanti novità previste dal d.l. 83/2015, operativa alla data di entrata in vigore del decreto. Il portale sarà gestito direttamente dal Ministero della Giustizia ed è previsto un contributo obbligatorio di 100 euro per ogni “lotto” di vendita.

La delega al professionista (che dovrà curare la pubblicità) diventa obbligatoria e nasce l’”albo” dei custodi giudiziari: un elenco dei soggetti specializzati per la custodia e la vendita dei mobili pignorati che dovrà essere istituito (con modalità informatiche) presso ogni tribunale (ex nuovo art. 169-sexies disp. att. c.p.c.), contenendo anche la documentazione comprovante le competenze maturate dal singolo professionista, anche relativamente a specifiche categorie di beni.

Conversione del pignoramento “a rate”

Viene introdotta anche la possibilità per il debitore, a determinate condizioni, di accedere alla conversione del pignoramento “a rate”. Secondo il nuovo quarto comma dell’art. 495 c.p.c., infatti, il debitore potrà chiedere la sostituzione dei beni o dei crediti pignorati con una somma di denaro, da rimborsare anche attraverso un meccanismo rateale. Il giudice disporrà con la stessa ordinanza, laddove ricorrano giustificati motivi, che il debitore versi l’importo con rate mensili entro il termine di 36 mesi, maggiorato degli interessi scalari al tasso convenzionale pattuito o in mancanza al tasso legale. Il giudice, inoltre, ogni sei mesi provvede al pagamento al creditore pignorante ovvero alla distribuzione tra i creditori delle somme versate nelle more dal debitore.

Perdita di efficacia del pignoramento

Altra rilevante novità della riforma è il dimezzamento dei termini per la perdita di efficacia del pignoramento.

Modificando l’art. 497, primo comma, c.p.c., infatti, il decreto prevede, a decorrere dalla sua entrata in vigore, che la vendita o l’assegnazione dei beni pignorati vada richiesta entro 45 giorni (in luogo degli attuali novanta), a pena di inefficacia.

Vendita dei beni pignorati e valore degli immobili

Cambiano anche le modalità di vendita dei beni pignorati. Il termine per il deposito dell’istanza scende da 120 a 60 giorni. Sarà il giudice a fissare altresì il numero complessivo degli esperimenti di vendita, in numero non inferiore a tre, oltre ai “criteri per determinare i relativi ribassi, le modalità di deposito della somma ricavata dalla vendita e il termine finale non inferiore a sei mesi e non superiore a un anno alla cui scadenza il soggetto incaricato della vendita deve restituire gli atti in cancelleria”.

Il valore dell’immobile pignorato, secondo il nuovo art. 568 c.p.c. sarà determinato sempre dal giudice avuto riguardo “al valore di mercato sulla base degli elementi forniti dalle parti e dall’esperto nominato ai sensi dell’articolo 569, primo comma”. Il calcolo dell’esperto dovrà essere effettuato sulla base della superficie dell’immobile (del valore per metro quadro e di quello commerciale), esponendo analiticamente adeguamenti e correzioni della stima, ivi compresa l’eventuale riduzione del valore di mercato (per mancanza della garanzia per vizi, per vincoli o oneri giuridici non eliminabili, per spese condominiali insolute, ecc.).

Corsia preferenziale per la ricerca telematica

La ricerca dei beni da pignorare, introdotta dal d.l. n. 132/2014 (cfr. art. 492-bis c.p.c.) e ancora inattuabile mancando l’apposito decreto ministeriale, viene già riformata dall’attuale decreto. Viene prevista, in sostanza, la possibilità per il creditore di accedere subito alle banche dati per la ricerca dei beni da pignorare (rivolgendosi autonomamente ai gestori), senza dover attendere il decreto attuativo. La disposizione, prevista dall’aggiunta all’art. 155-quinquies delle disposizioni attuative del codice di procedura civile, perderà efficacia laddove il decreto ministeriale non venga adottato entro un anno dall’entrata in vigore della riforma.

Limiti al pignoramento di stipendi e pensioni

La riforma modifica anche il limite massimo del pignoramento di stipendi e pensioni di regola fissato nella misura del quinto.

I nuovi commi aggiunti all’art. 545 c.p.c. prevedono infatti, con riferimento al pignoramento delle pensioni che le somme dovute non potranno essere pignorate “per un ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale, aumentato della metà” che la parte eccedente è pignorabile nei limiti previsti dalla legge; con riferimento agli stipendi, invece, che le somme dovute, “nel caso di accredito su conto bancario o postale intestato al debitore, possono essere pignorate, per l’importo eccedente il triplo dell’assegno sociale, quando l’accredito ha luogo in data anteriore al pignoramento”, quando invece l’accredito ha luogo “alla data del pignoramento o successivamente”, le predette somme possono essere pignorate nei limiti stabiliti dalla legge.

Il pignoramento eseguito in violazione delle suddette norme è parzialmente inefficace, e l’inefficacia è rilevata anche d’ufficio dal giudice.

La riforma interviene anche sull’art. 546 c.p.c., prevedendo un’aggiunta al primo comma secondo la quale, nel caso di accredito su conto bancario o postale intestato al debitore delle somme dovute a titolo di stipendio, pensione (o altre indennità), “gli obblighi del terzo pignorato non operano, quando l’accredito ha luogo in data anteriore al pignoramento, per un importo pari al triplo dell’assegno sociale”; quando, invece, l’accredito ha avuto luogo alla data del pignoramento o in data successiva, gli obblighi tornano ad operare nei limiti previsti dall’art. 545 c.p.c.

DL N.83/2015 – NOVITA’ SUL PCT

DL 83/2015 – PCT e il nuovo intervento del legislatore

È stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 147 del 27/6/2015 il D.L. 27/6/2015, n. 83 recante “Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria”.

Il citato D.L. contiene numerose novità introducendo nuove norme al codice civile (art. 12), al codice di procedura civile (artt. 13 e seguenti), nonché al PCT (art. 19).
L’art. 19 del D.L. 83/2015 apporta delle modificazioni alle norme sul PCT e specificamente al D.L. 179/2012. Va precisato che, ai sensi dell’art. 24 del D.L. in esame, le norme sul processo civile telematico (art. 19) entra in vigore il 27 giugno 2015 (data di pubblicazione nella G.U.).
Le novità si possono sinteticamente indicare di seguito:

1. deposito telematico facoltativo dell’atto introduttivo o del primo atto difensivo e dei documenti. Viene introdotto il comma 1-bis all’art. 16-bis che recita:

“1-bis. Nell’ambito dei procedimenti civili, contenziosi e di volontaria giurisdizione innanzi ai Tribunali e, a decorrere dal 30 giugno 2015, innanzi alle Corti d’Appello è sempre ammesso il deposito telematico dell’atto introduttivo o del primo atto difensivo e dei documenti che si offrono in comunicazione, da parte del difensore o del dipendente di cui si avvale la pubblica amministrazione per stare in giudizio personalmente, nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. In tal caso il deposito si perfeziona esclusivamente con tali modalità”.

Evidentemente il legislatore, con la formulazione in esame, ha scelto la modalità del deposito telematico facoltativo dell’atto introduttivo e del primo atto difensivo.

Pertanto, dal 27 giugno 2015 è possibile – ma non obbligatorio – depositare telematicamente l’atto di citazione, il ricorso e la comparsa o memoria di costituzione. Il medesimo testo, così come strutturato, nulla dice in ordine alla modalità pratica di esecuzione del deposito. Nulla quaestio per il primo atto difensivo (comparsa o memoria di costituzione), posto che per il deposito si avrà già a disposizione il numero di ruolo e, quindi, si tratterà di trasmettere telematicamente l’atto, la procura ed eventuali allegati.

Allo stesso modo, qualora si trattasse di un rito che si introduce con ricorso, non sembra possano sussistere particolari problemi poiché il deposito si eseguirà seguendo lo schema già sperimentato delle procedure monitorie.

Una questione particolare sorge con riferimento ai procedimenti che si introducono con citazione, poiché evidentemente tale atto dovrà essere stato preventivamente notificato.

Successivamente alla notifica si potranno avere tre situazioni diverse:

a) atto di citazione in formato analogico notificato a mezzo UNEP o a mezzo posta ai sensi della L. 53/1994;
b) atto di citazione come documento informatico notificato a mezzo PEC;
c) atto di citazione come copia informatica per immagine notificato a mezzo PEC.

Soltanto nel caso sub b) si avrà un documento informatico utile per il deposito telematico così come prescritto dalle regole tecniche (es. procedure monitorie), mentre negli altri casi, si sarà in possesso di una copia informatica per immagine il cui formato non è quello previsto dagli articoli 11 del D.M. 44/2011 (regole tecniche) e 12 del Provvedimento del 16/4/2014 (specifiche tecniche) per la trasmissione telematica degli atti.

Ciò posto, nel caso di citazione, per formalizzare il deposito telematico (e la iscrizione a ruolo) si dovrà depositare sempre, come atto principale, l’atto di citazione come documento informatico e la copia informatica per immagine del medesimo atto notificato sarà allegata (unitamente ovviamente alle ricevute della PEC qualora la notifica sia effettuata con tale mezzo).

Non sembra idonea la soluzione del procedimento attualmente previsto per le esecuzioni in quanto la norma che disciplina il deposito telematico (art. 16-bis, comma 2, D.L. 179/2012) si riferisce espressamente ai procedimenti di esecuzione forzata e, quindi, esclude che si possa applicare anche ad altri contesti.

Se si sceglie di trasmettere telematicamente l’atto introduttivo o il primo atto difensivo (e i documenti), la norma precisa (anche se sembra superfluo) che “il deposito si perfeziona esclusivamente con tale modalità”, escludendo così che si possa optare per un ulteriore deposito analogico.

2. Potere di certificazione di conformità delle copie degli atti notificati. Viene introdotto l’art. 16-decies al D.L. 179/2012, rubricato “Potere di certificazione di conformità delle copie degli atti notificati”, secondo cui

“Il difensore, il dipendente di cui si avvale la pubblica amministrazione per stare in giudizio personalmente, il consulente tecnico, il professionista delegato, il curatore ed il commissario giudiziale, quando depositano con modalità telematiche la copia informatica, anche per immagine, di un atto formato su supporto analogico e notificato, con modalità non telematiche, dall’ufficiale giudiziario ovvero a norma della legge 21 gennaio 1994, n. 53, attestano la conformità della copia al predetto atto. La copia munita dell’attestazione di conformità equivale all’originale dell’atto notificato. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche all’atto consegnato all’ufficiale giudiziario o all’ufficio postale per la notificazione.”

Tale disposizione si applica ai casi in cui si debba provvedere al deposito telematico della copia informatica – anche per immagine – di un atto per il quale si è provveduto alla notifica con modalità non telematiche (a mezzo UNEP o notifica in proprio a mezzo del servizio postale). Il soggetto che esegue il deposito deve provvedere ad attestare la conformità dell’atto notificato che si deposita telematicamente.

3. Modalità dell’attestazione di conformità. Il D.L. 83/2015, infine, introduce al D.L. 179/2012 l’art. 16-undecies, rubricato appunto “modalità dell’attestazione di conformità”. Tale disposizione recita:
1. Quando l’attestazione di conformità prevista dalle disposizioni della presente sezione, dal codice di procedura civile e dall’articolo 3-bis, comma 2, della legge 21 gennaio 1994, n. 53, si riferisce ad una copia analogica, l’attestazione stessa è apposta in calce o a margine della copia o su foglio separato, che sia però congiunto materialmente alla medesima.
2. Quando l’attestazione di conformità si riferisce ad una copia informatica, l’attestazione stessa è apposta nel medesimo documento informatico.
3. Nel caso previsto dal comma 2, l’attestazione di conformità può alternativamente essere apposta su un documento informatico separato e contenente l’indicazione dei dati essenziali per individuare univocamente la copia a cui si riferisce; il predetto documento è allegato al messaggio di posta elettronica certificata mediante il quale la copia stessa è depositata telematicamente. Se la copia informatica è destinata alla notifica, l’attestazione di conformità è inserita nella relazione di notificazione.

La formulazione del testo normativo – sempre poco chiaro a parere di chi scrive – parrebbe voler intendere che nell’ipotesi prevista al comma 1, in cui sia necessario attestare la conformità di una copia analogica rispetto ad un documento informatico, l’attestazione possa essere apposta in calce o a margine del documento oppure su foglio separato che sia “materialmente” congiunto al documento in questione. Purtroppo, al legislatore è sfuggito che l’art. 3-bis L. 53/1994 è riferito alla notifica “con modalità telematica” e cioè a mezzo PEC per la quale l’attestazione di conformità va inserita nella relata di notifica (documento informatico). Ovviamente si tratta di un refuso che, tuttavia, confligge con la predetta norma sulle notifiche in proprio e si dovrà intervenire prima della conversione in legge.
Riguardo ai commi 2 e 3, invece, da un lato il comma 2 sembra non lasciare spazi prevedendo unicamente la possibilità di apporre l’attestazione nel documento informatico, mentre il successivo comma 3 consente la possibilità di una attestazione su documento informatico separato. In tale ultima ipotesi l’attestazione dovrà contenere quanti più dati possibili che siano idonei a individuare il documento di cui si attesta la conformità. In occasione dell’evento “I Fori fanno rete” tenutosi a Roma lo scorso 3 luglio ed organizzato dalla FIIF (Fondazione Italiana per l’Innovazione Forense – ente del CNF) sono state evidenziate le storture e le criticità di questo provvedimento e con riferimento all’articolo sulle attestazioni di conformità è stato rilevata sia l’incongruenza precedentemente citata riguardo al richiamo dell’art. 3-bis L. 53/1994 sia l’incongruenza della espressione “è allegato”, posto che il messaggio di PEC con il quale si provvede al deposito telematico contiene unicamente un allegato denominato atto.enc; pertanto, secondo la norma in esame l’attestazione di conformità dovrebbe essere allegata separatamente ed esternamente alla busta denominata atto.enc. È evidente che si tratta di una incongruenza che tecnicamente non è realizzabile in quanto l’attestazione dovrà essere sempre acclusa alla copia informatica di cui si attesta la conformità.

Riguardo alla impronta (c.d. hash) va fatta chiarezza.
Il legislatore con il D.L. 83/2015 nulla dispone in ordine all’impronta e ciò lascia legittimamente supporre che il riferimento all’impronta esuli dal PCT, così come già rilevato dallo scrivente in altri contributi.
Gli aspetti tecnici del PCT sono disciplinati da norme diverse da quelle sulle notifiche telematiche.

Pertanto, bisogna distinguere se si tratti di deposito telematico ovvero se si tratti di notifica a mezzo PEC. Tale distinzione rileva soprattutto per le attestazioni di conformità, poiché l’art. 3-bis, comma 2, della L. 53/1994 nell’ipotesi di documento non informatico richiede che la conformità all’originale analogico dell’atto vada effettuata “a norma dell’articolo 22, comma 2, del CAD” (D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82) e contenuta nella relata di notifica. Il richiamo all’art. 22 del CAD impone l’applicazione delle regole tecniche emanate con D.P.C.M. 13/11/2014 e specificamente dell’articolo 4. Tale norma al comma 1 statuisce:

“La copia per immagine su supporto informatico di un documento analogico di cui all’art. 22, commi 2 e 3, del Codice è prodotta mediante processi e strumenti che assicurino che il documento informatico abbia contenuto e forma identici a quelli del documento analogico da cui è tratto, previo raffronto dei documenti o attraverso certificazione di processo nei casi in cui siano adottate tecniche in grado di garantire la corrispondenza della forma e del contenuto dell’originale e della copia”.
Il sistema dell’impronta di hash sembra essere una valida soluzione ma richiede conoscenze tecniche che non tutti hanno. Peraltro, il documento informatico ottenuto (cioè la copia per immagine) può essere firmato digitalmente ai sensi dell’art. 4, comma 2, DPCM cit. Sorge qualche perplessità in ordine alla facoltà ammessa dall’art. 4, comma 3, del DPCM in questione laddove si consente di inserire l’attestazione di conformità “nel documento informatico contenente la copia per immagine”, poiché una simile operazione altera la sequenza di bit del file che, conseguentemente, sarà diverso da quello creato senza attestazione e la prova può essere data proprio mediante impronta di hash che non sarà la medesima.
Riguardo al PCT, invece, le norme che regolano il deposito telematico (D.L. 179/2012, DM 44/2011 e Provv. 16/4/2014) indicano quali sono i formati dei file ammessi sia riguardo all’atto principale (sempre PDF/A) sia con riferimento agli allegati. Nessuna norma tra queste richiama espressamente l’art. 22 CAD e, conseguentemente, le regole tecniche riguardo alla necessità dell’impronta per la copia informatica.

A parte il D.L. 83/2015, ci sono altri aspetti connessi con il PCT che sono meno discussi ma non per questo di minore rilevanza. In occasione dell’evento “I Fori fanno rete” è emerso lo stato dell’arte anche in relazione alle altre giurisdizioni (processo amministrativo telematico, giudizi dinanzi alla Corte di Cassazione, giustizia tributaria). Lo scenario è ancora provvisorio poiché per la giustizia amministrativa sono state predisposte le regole tecniche che saranno pubblicate quando sarà formulata una struttura normativa unitaria e chiara. Riguardo ai giudizi in Cassazione, continua la sperimentazione e l’intento è quello di consentire il processo telematico in maniera uniforme sin dagli atti introduttivi. Con riferimento alla giustizia tributaria il dott. Sirianni (Direzione della Giustizia Tributaria) ha precisato che esistono il parere dell’AgID con cui si prescrive di non accettare tutti i formati di file, nonché il parere del Garante per la protezione dei dati personali (http://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/4070757); alla luce di ciò sono in corso di valutazione le iniziative da intraprendere.

Particolarmente interessante, inoltre, è il tema della protezione dei dati personali in ambito PCT per il quale il Garante europeo (EDPS) – Dott. Giovanni Buttarelli – ha evidenziato quanto sia importante prestare attenzione alla riforma della privacy a livello comunitario che sarà approvata entro fine 2015 con il
nuovo Regolamento, appunto direttamente applicabile in ogni Stato membro. Infatti, come già rappresentato con altro precedente contributo il PCT non è esente dal rispetto delle norme sulla privacy. Assolutamente condivisibili e pregnanti le considerazioni del Garante Europeo (dott. Buttarelli) in ordine alla diretta applicabilità anche al PCT – una volta approvato il Regolamento – delle nuove norme e in particolare di quelle sulla valutazione d’impatto sulla protezione dei dati (Privacy Impact Assessment – PIA) e sulla notifica di violazione dei dati personali.
In conclusione, è auspicabile una modifica del testo contenuto nel D.L. 83/2015 anche secondo le proposte che saranno formulate dalla FIIF/CNF, ma si spera sempre in una riforma più ampia e strutturata per il PCT.

LEGGE N. 92 DEL 2012 – NORME SANZIONATORIE – PRINCIPIO DI IRRETROATTIVITA’ DELLA LEGGE – PORTATA E LIMITI

Sentenza n. 16265 del 31/07/2015     Licenziamenti
LICENZIAMENTI – LICENZIAMENTO DISCIPLINARE – LEGGE N. 92 DEL 2012 – NORME SANZIONATORIE – PRINCIPIO DI IRRETROATTIVITA’ DELLA LEGGE – PORTATA E LIMITI

La Sezione lavoro ha ritenuto che, ai sensi del combinato disposto dei commi 47 e 67 dell’art.1 della legge 28 giugno 2012 n. 92, nei giudizi aventi ad oggetto i licenziamenti disciplinari, la legge regolatrice del rapporto sul versante sanzionatorio va individuata facendo riferimento non al fatto generatore del rapporto né alla contestazione degli addebiti, ma alla fattispecie negoziale del licenziamento, sicché l’apparato sanzionatorio disciplinato dal comma 42 dell’ art. 1 della legge n. 92 del 2012 va applicato solo ai nuovi licenziamento, ovvero a quelli comunicati a partire dalla data di entrata in vigore della legge stessa.
In pratica gli Ermellini affermano, con una sentenza direi rivoluzionaria, che per l’applicabilità o meno del sistema sanzionatorio di cui al nuovo art. 18 così come modificato dal comma 41 dell’art. 1 della Legge n. 92/12 (c.d. Legge Fornero) occorre fare riferimento non al momento in cui sarebbe sorto il rapporto ma la fatto costitutivo della fattispecie disciplinare .. e cioè alla data dell’intimato licenziamento.